domenica 12 ottobre 2014

Giovani&Lavoro


No work land. 
E' questa l'idea che richiama il nostro Paese alla luce dell'allarmante dato sulla disoccupazione giovanile al 44%. Non si lavora nella bella Italia, ma soprattutto a non lavorare sono i giovani al di sotto dei 30 anni, la maggior parte dei quali laureati.
Si tratta di quella fascia di «capitale umano» fondamentale per la produttività e la ripresa economica. Il paniere é caratterizzato da menti fresche e remunerativamente poco onerose per le aziende. Eppure, dati alla mano, il mercato del lavoro italiano non assorbe le sue nuove leve.
Quindi i ragazzi senza lavoro scappano. Più sono qualificati e più sono corteggiati dai mercati stranieri, più hanno brillato in Italia più spariscono dal firmamento.
Come poter fermare questa giostra pericolosa? Certamente c'è bisogno di maggiore flessibilità nel mondo del lavoro, il sistema così com'è non funziona e non risponde al dramma della disoccupazione giovanile e della conseguente fuga. Renzi attualmente è in prima linea nella crociata della Riforma del Lavoro, eppure i temi di discussione per ora, sono e restano lontani da una possibile soluzione che riduca questo drammatico 44%. Non è l' Articolo 18 il punto, a mio parere, si comincia a remare nella direzione dei giovani solo se le aziende vengono incentivate nell'assumerli (pare ci stiano provando). Non con la concessione di apprendistati sottopagati, ma sgravando fiscalmente chi assume, incoraggiando a scegliere un «under 30» per una prospettiva di lungo termine. Nell'attesa che qualcosa accada dai palazzi del potere, bisogna aiutare a riformare anche culturalmente il concetto di lavoro. I ragazzi devono puntare sul «self business» esattamente come in USA.

Al MIT di Boston nessuno promette posti fissi ai futuri Steve Jobs, si insegna a costruire un'idea e a svilupparla con i mezzi messi a disposizione. Se da un lato le nostre università dovrebbero stimolare le idee, dall'altra il nostro Paese dovrebbe aiutare gli investimenti su queste nuove idee.
Facebook è quello che conosciamo oggi grazie ad una concessione di finanziamento di 500.000$ di un privato ad un gruppo di ragazzini, messo in contatto con loro dalla stessa università. La rete di contatti di questo tipo in Italia è praticamente inesistente. I nostri giovani studiano ma non innovano, pensano ma non possono agire. Chiedere un prestito è pressoché impossibile e ancora più difficile è avere aiuti pubblici per finanziare un nuovo progetto. Spingersi poi ad aprire una società e mettere a contratto i primi collaboratori è decisamente utopico, considerato l'ammontare di tasse da pagare anche se il fatturato rasenta lo zero nel primo anno.
Le start up sono la quinta essenza dell'innovazione produttiva di cui abbiamo bisogno, non solo possono ma devono rappresentare il futuro dei nostri giovani. Ma anche questo modo di fare business necessita di un aiuto che arrivi dall'alto.
Cosa ci aspetta allora? Se le cose non cambieranno in fretta la fuga resterà la soluzione più quotata e presto perderemo tutti i nostri migliori talenti. L'augurio è che questa Italia venga salvata, ed insieme a lei i sogni di una generazione che nel bel Paese vorrebbe restare invece che scappare.

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