No work land.
E' questa l'idea che
richiama il nostro Paese alla luce dell'allarmante dato sulla
disoccupazione giovanile al 44%. Non si lavora nella bella Italia, ma
soprattutto a non lavorare sono i giovani al di sotto dei 30 anni, la
maggior parte dei quali laureati.
Si tratta di quella fascia di «capitale
umano» fondamentale per la produttività e la ripresa economica. Il
paniere é caratterizzato da menti fresche e remunerativamente poco
onerose per le aziende. Eppure, dati alla mano, il mercato del lavoro
italiano non assorbe le sue nuove leve.
Quindi i ragazzi senza lavoro scappano.
Più sono qualificati e più sono corteggiati dai mercati stranieri,
più hanno brillato in Italia più spariscono dal firmamento.
Come poter fermare questa giostra
pericolosa? Certamente c'è bisogno di maggiore flessibilità nel
mondo del lavoro, il sistema così com'è non funziona e non risponde
al dramma della disoccupazione giovanile e della conseguente fuga.
Renzi attualmente è in prima linea nella crociata della Riforma del
Lavoro, eppure i temi di discussione per ora, sono e restano lontani
da una possibile soluzione che riduca questo drammatico 44%. Non è
l' Articolo 18 il punto, a mio parere, si comincia a remare nella
direzione dei giovani solo se le aziende vengono incentivate
nell'assumerli (pare ci stiano provando). Non con la concessione di apprendistati sottopagati,
ma sgravando fiscalmente chi assume, incoraggiando a scegliere un
«under 30» per una prospettiva di lungo termine. Nell'attesa che
qualcosa accada dai palazzi del potere, bisogna aiutare a riformare
anche culturalmente il concetto di lavoro. I ragazzi devono puntare
sul «self business» esattamente come in USA.
Al MIT di Boston nessuno promette posti
fissi ai futuri Steve Jobs, si insegna a costruire un'idea e a
svilupparla con i mezzi messi a disposizione. Se da un lato le nostre
università dovrebbero stimolare le idee, dall'altra il nostro Paese
dovrebbe aiutare gli investimenti su queste nuove idee.
Facebook è quello che conosciamo oggi
grazie ad una concessione di finanziamento di 500.000$ di un privato
ad un gruppo di ragazzini, messo in contatto con loro dalla stessa
università. La rete di contatti di questo tipo in Italia è
praticamente inesistente. I nostri giovani studiano ma non innovano,
pensano ma non possono agire. Chiedere un prestito è pressoché
impossibile e ancora più difficile è avere aiuti pubblici per
finanziare un nuovo progetto. Spingersi poi ad aprire una società e
mettere a contratto i primi collaboratori è decisamente utopico,
considerato l'ammontare di tasse da pagare anche se il fatturato
rasenta lo zero nel primo anno.
Le start up sono la quinta essenza
dell'innovazione produttiva di cui abbiamo bisogno, non solo possono
ma devono rappresentare il futuro dei nostri giovani. Ma anche questo
modo di fare business necessita di un aiuto che arrivi dall'alto.
Cosa ci aspetta allora? Se le cose non
cambieranno in fretta la fuga resterà la soluzione più quotata e
presto perderemo tutti i nostri migliori talenti. L'augurio è che
questa Italia venga salvata, ed insieme a lei i sogni di una
generazione che nel bel Paese vorrebbe restare invece che scappare.
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